HANNO DETTO DI LUI
Artisti sotto i trenta: Mirko Mantovan
Mirko Mantovan ha da poco superato i trent’anni. Ho deciso di parlare di lui perché è l’autore del Gonfalone del Palio dei Dieci Comuni di Montagnana. Ha un’origine da autodidatta, svolge abitualmente altra attività di tipo impiegatizio, ma si rivolge all’arte con una intensità tale da poterlo accostare senza esitazione agli artisti professionisti.
Nato a Basilea nel 1966, si è appassionato all’arte sin da giovanissimo, all’età di dieci anni, e da allora non ha mai smesso di disegnare e di dipingere, animato da una passione tecnica intrisa di cocciutaggine e di amore per la realtà, sostenuto da una indubbia innata versatilità per il disegno. Parlare di lui mi consente di aprire una parentesi sui giovani pittori che trovano nelle varie tecniche pittoriche un particolare momento di espressione di sé e di conoscenza del mondo, raffinando i sensi resi spesso ottusi dal tipo di accelerazione e disattenzione esistenziale che caratterizza la nostra cultura di massa: pittura e scultura sono “campi” di arricchimento percettivo, offrono tempi impagabili di sedimentazione delle suggestioni conoscitive che vengono dalla realtà e che si fondono con le insorgenze psichiche; molto più della fotografia, tanto in auge oggi proprio perché più aderente alla rapidità di consumo e alla bidimensionalità della cultura visiva della cultura fornita dai mezzi di comunicazione di massa. Dipingere e scolpire non significa semplicemente manifestare una nostalgia per la natura e il rapporto diretto con essa, ma offrirsi un modo e un tempo di riapprendimento, una restituzione di prensilità dei sensi di superficie (vista, tatto, olfatto, gusto, udito) e del senso interno che ne sintetizza e armonizza i dati.
Mirko Mantovan sembra più di molti altri rispondere istintivamente a questo bisogno: lo contraddistingue una meticolosità esecutiva quasi maniacale (in senso lato e positivo di precisione e cura attentissima sia del particolare sia del colpo d’occhio, della veduta d’insieme nell’articolazione, in superficie e in profondità, degli spazi e delle forme).
Costruisce le sue immagini con sensibilità iperrealista, portando in evidenza tutta la plasticità delle figure, come accade anche nel trompe l’oeil che vuol fungere da inganno ottico tra realtà e immagine. Penso risponda a un bisogno di registrazione e apprendimento da una parte e a una necessità di immersione dall’altra, di sentirsi “dentro”, davvero partecipe della rappresentazione.
Nel bel gonfalone realizzato per il XXI Palio di Montagnana Mirko Mantovan si è cimentato in una sintesi storico pittorica che non manca di suggestione: colpisce per il nitore disegnativo e il realismo cromatico, ma c’è anche la volontà di una contestualizzazione in certo senso artistica, con in basso la citazione della rinascimentale battaglia di Paolo Uccello; al centro i cavalli in corsa del Palio a una delle difficili e molto pericolose curve a gomito, che si sono dimostrate decisive in ogni gara, e i portatori di gonfalone nella faticosissima competizione attorno al vallo; in alto, contro un cielo azzurro settembrino le mura e il castello della Rocca degli Alberi.
In altre opere che mi è stato dato di vedere e di studiare perché presentate a concorsi, il giovane artista mostra di prediligere rappresentazioni naturalistiche, di paesaggi e di boschi caratterizzate da una ricchissima varietà di modulazione cromatica con giochi di tonalità di rara perizia e indubbiamente di maggiore risonanza poetica, intima.
Giorgio Segato – Settembre 1996
Che sia questa l’epoca della nostalgia? Tutto appare, in questo fine secolo, eccitato e convulso: e tutto tende a consumarsi in un battibaleno, sensazioni e sentimenti. Ma proprio per questo, quasi per reazione conseguente, ecco il desiderio di conservare che ci assale come un rifugio di tanti pensieri fuggenti. Conservare che cosa? Le memorie, magari trasfigurate, del nostro passato individuale. Lo sa bene Mirko Mantovan, un giovane pittore padovano che sta affacciandosi alla ribalta. La sua pittura rifiuta le banalità (e volgarità) della moda chiassosa per rifugiarsi in una meditazione appunto nostalgica del mondo: un intimismo che non può che soddisfare chi intende uscire dall’ “usa e getta” del nostro tempo.
Mantovan è uomo di poche parole: discreto e riservato come la sua pittura. Non c’è un tono fuori posto, nessun sobbalzo spettacolare; e, del pari, non c’è alcuna voglia di compiacere ad ogni costo. Sfilano davanti ai nostri occhi, con un movimento lento e quasi pudico, gli interni domestici: le cassapanche con i fiori secchi e le zucche raggrinzite, i comodini, i letti sfatti, la frutta ancora posata sul cartoccio. E quando appaiono i paesaggi, si rincorrono pacatamente i filari rinsecchiti tra la neve già “vecchia”, mentre le colline d’inverno attendono trepide il raggio del sole. Sono queste atmosfere, dolci e insieme amare, che covano una lunga suggestione; e ci commuovono.
S’intenda: Mantovan sa di essere ancora all’avvio di un lungo cammino. Lo aspettano approfondimenti e decantazioni. Si capisce come egli abbia bisogno di scartare e scavare, anche e soprattutto dal punto di vista tecnico. Ma proprio questa sua freschezza tenera, e un po’ acerba, diventa la sua dote migliore. Osserviamo da vicino le stesure trepide sulle tavole: lo sciogliersi nella pittura (dico: dentro la pittura) dei suoi sentimenti, delle sue fantasie, dei suoi ricordi. Sugli sfondi si stemperano le vecchie carte da parati; e il legno grezzo dei mobili rustici assorbe il tempo, ne filtra gli umori. Poi allunghiamo lo sguardo ai paesaggi: e la stessa sensazione ci riempie il cuore, come di un’aria antica che circola e, pur nei brividi dei toni freddi, ci rallegra e riscalda. Mantovan sa trasmettere, magari con un linguaggio ancora asprigno come le prime prugne, i moti del suo animo. E noi recepiamo il suo messaggio. Quali e quanti strani e straniti pensieri ci portano lontano! Ci chiediamo se l’atmosfera che circonda questi quadri sia la nostra, cioè quella che viviamo ogni giorno. No. Il nastro frenetico dei flash si è fermato d’un colpo. Alla memorizzazione meccanica s’è sostituita la memoria. Non importa se il processo di riappropriazione delle immagini ogni tanto si inceppi, come le pellicole dei cinematografi della nostra infanzia. Conta quel sottile, sottilissimo alito di poesia che s’insinua dentro di noi. Ed ecco che quei fiori secchi rifioriscono come per incanto; e il legno delle cassapanche torna ad essere materia viva. Mirko Mantovan ci ha convinti. Il suo linguaggio della nostalgia è forse l’antidoto migliore contro le sofisticazioni che il nostro tempo ci ammannisce continuamente. Restiamo ancora davanti ai suoi quadri. L’occhio li scruta; il polpastrello li accarezza. Sembra quasi che sprigionino il profumo di lavanda delle nostre nonne. E non possiamo che augurare a questo giovane – e già saggio – pittore di continuare sulla strada dei sentimenti, sfuggendo alle tante sirene che vorrebbero ammaliarlo (e addormentarlo).
Paolo Rizzi – Novembre 1999
La pittura di Mirko Mantovan – Fra ideogrammi di colori e pulviscolo di emozioni
Si guarda la pittura di Mirko Mantovan: un alfabeto fantastico ed elettrizzante. Poi si leggono le proprie sensazioni: un’immersione iniziatica, palpitante ed emozionante, nella natura. Paradossale no? Come questa storia; il colore in bianco e nero. Si, perché ai miei tempi della vita da studente, le tavole dei libri di storia dell’arte erano inesorabilmente in bianco e nero. L’oro dei mosaici di Ravenna in bianco e nero, Giotto pure, ma anche di Piero della Francesca non si poteva conoscere il misterioso tono dei caldi grigi. L’architettura si poteva capire. C’era la possibilità di entrare nel mistero delle proporzioni con il bianco dei pieni e il nero dei vuoti. Ma come accostarsi allo struggente azzurro del Beato Angelico, agli ori bizantini, ai celesti di Giotto, al cielo stellato di Galla Placidia? Così il mio primo incontro con Mirko Mantovan è stato questo ricordo del bianco e nero e una dilatata meraviglia davanti ai suoi quadri. Visso, agosto 2013. Atrio del Palazzo dei Priori. Entro in sala e i quadri li vedo apparire contro la pietra dei muri trecenteschi. Comincio a spostarmi avanti e indietro, fra il titubante e il risoluto, guardando ora il visitatore accanto per verificare se la sua reazione è uguale alla mia, ora quelle tele che vedevo per la prima volta. Davanti ho i colori di Mantovan: rossi, verdi, azzurri, gialli, grigi. Ed ecco così apparire fruscii, suoni, luoghi incantati in un aggrovigliarsi di ombre palpitanti di gioia, in un bosco percorso dalla speranza di una nuova e profumata pienezza d’estate. E proprio il bosco, con il suo colore spaziale, annulla la descrittività degli accadimenti terrestri per diventare protagonista di un racconto, bellezza contro il il nulla, le piccole dinastie di tono contro il tempo battuto dai minuti: tutto l’universo confidato dal cielo o dal monte, dal verde o dalla campagna, dagli alberi o dalla luce. Ho sotto gli occhi qualcosa che non avevo immaginato e che sembra l’evento di una divertita stupefazione che vado a ricercare nella memoria pittorica, anche quella del bianco e nero. La mia è la voce muta dell’osservatore, il suo stare dalla parte di chi sa farsi spettatore del mondo e si ferma indifeso e arreso al dono, alla grazia, al mistero di luce e colore che inonda il paesaggio. Ma non si può negare la sincerità, figlia del mio rispetto per le opere della pittura. Sono un fruitore, sono un curioso. Chiedo solo un obolo di magia, un’inezia, una briciola. E il piatto che ritiro guardando i quadri di Mirko Mantovan non è certo vuoto.
Valerio Franconi – Visso, agosto 2014
Valerio Franconi
Uno scrigno di sorprese.
Milena Bergantin diceva che “tutto ciò che accade in natura ha una motivazione scientifica, ma gli artisti non ci stanno: trasformano la realtà in fiaba, la riempiono di magia, l’ammantano di sogni, la ricoprono di poesia”. Mai un’affermazione può essere tanto vicina all’arte di Mirko Mantovan, quasi una fiaba che si perde nella notte del tempo, una mostra su di noi, sulla nostra vita, sulle nostre paure e sui nostri sogni. Per un artista come lui l’unica chiave possibile d’interpretazione credo sia proprio quella di Milena Bergantin: farsi trasportare e incantare dalle meraviglie di un viaggio capace di condurci di là delle cose reali, sensazioni nuove, connessioni inedite, significazioni sconosciute. La sua pittura è davvero una fiaba ariosa e spumeggiante, un flusso di paesaggi, luci, pensieri, allegorie cangianti, tramonti come tavolozze di colori, scorci tridimensionali, età che si proiettano su schermi di tenerezze traslate, nature morte, scene di struggente magia dove si insinua, come se niente fosse, la voglia di raccontarle. Te ne hanno raccontate tante di storie, sin da quando eri bambino, perché sei cresciuto in una famiglia montanara, e non c’è famiglia montanara nella quale qualcuno, in qualche momento del Novecento, non le abbia subite, e create, e ascoltate di ogni sorta. Ma cosa fai se sei originario di Ussita, se sei cresciuto alla periferia di boschi e montagne, non in una grande città, non in luoghi che potevano stimolare in altri modi la tua formazione. Se i tuoi più vivi ricordi d’infanzia sono le trame di feste religiose, di processioni che guardavi come avvenimenti fantastici, se perfino i tuoi sogni, quando li ricolleghi, risultano essere frammenti di fiaba, che ti entravano nelle orecchie mentre dormivi? Se ti accorgi che anche le storie che ti hanno raccontato non quadrano, si ramificano in versioni discordanti, e scopri per ciascuna un’altra storia, diversa da quella che hai custodito per tutta la vita? Ebbene, se hai il talento artistico di Mirko Mantovan, allora racconti tutto un mondo – mi viene da dire tutto il mondo pittorico – che è contenuto in ciascuna delle tue storie. Certo, il mondo che ti è familiare, che conosci. Ma non un mondo che parla solo di se stesso, a se stesso. Questo artista cinquantenne, nato a Basilea nel 1966, ha qualcosa di raro, come dire, lo stato di grazia dei poeti, la capacità di comunicare a tutti un intero universo di emozioni, di ricordi, di esperienze vicine e lontane, di cose dette e non dette, con apparente semplicità, anche in poche righe, anche in un solo quadro. Se gli chiedete cosa significhi rappresentare ciò che si sa, o ciò che si vede, magari vi risponderà che la fiction è più vera della verità o che l’invisibile è il vero soggetto dell’arte, la materia dei sogni, dei desideri, dei processi che ci accomuna come genere umano e rende universale qualsiasi arte. Ma cosa si racconta quando non si ha alcuna esperienza? Raccontare quello di cui sai, non significa affatto mettere la gente nei panni che hai indossato, sarebbe un’interpretazione riduttiva dell’esperienza. Hai mai visto un’alba o un tramonto? Sei mai entrato in un bosco? Ebbene, allora puoi descrivere anche il tratto frusciante di un albero o le nuvole in primavera. Si tratta di conoscenze emotive. Vi devo confessare che non avevo ancora letto nulla di Mantovan, prima di recensire il contenuto della sua opera. Devo ringraziare per questa occasione. Mi ha consentito una scoperta. Se credete che i “grandi” siano solo Calvino, Basile e Oz provate anche voi ad accedere al suo mondo e cambierete idea.
Sono passati quarant’anni da quando nel 1976, appena decenne, Mirko Mantovan mandò ad effetto il suo primo disegno. Quarant’anni nei quali l’artista ha realizzato veri capolavori della pittura contemporanea: ha rivoluzionato le logiche delle mostre personali, ha creato, ha sperimentato ogni tipo di tecnica, ha influenzato l’immaginario collettivo e stabilito nuove regole per l’arte contemporanea. Quarant’anni che Mantovan celebra oggi inaugurando un sito che con un viaggio immersivo, artistico, multisensoriale ci accompagna ancora una volta alla scoperta di quella faccia nascosta dell’espressività che è dentro ognuno di noi. Mirko Mantovan, come la sua vetrina on line testimonia ancora una volta, non fa solo pittura, sperimenta linguaggi, apre porte, parla dell’inconscio e del mistero, sondando i lati sconosciuti della nostra anima e della nostra vita. La storia rappresentativa delle sue opere, riproposta ai massimi livelli, propri ed esclusivi del pittore, non è solo una collezione di vari temi, tecniche, soggetti e memorie sentimentali, non è soltanto una gigantesca operazione nostalgia. E’ la celebrazione di una visione, di un modo d’intendere l’arte che è proprio ed esclusivo di Mirko Mantovan. Una visione multisensoriale che fonde la luce, il colore, l’architettura in un unico insieme. La sua storia artistica c’è intera in queste pagine, raccontata in maniera cronologica, dagli esordi dell’infanzia alle ultime produzioni pittoriche. E tutto inizia ovviamente con i primi disegni infantili, il genio uscito dalla lampada – come direbbe Powell – che ha guidato Mantovan nella prima e fondamentale fase giovanile, ricca di riconoscimenti e di premi. In quella successiva, settembre 1996, il critico d’arte Giorgio Segato vede nella sensibilità iperrealista di Mantovan – nel suo modo di costruire le immagini – “il bisogno di registrazione e di apprendimento da una parte e d’immersione nell’arte dall’altra”. Tre anni dopo, novembre 1999, il critico d’arte Paolo Rizzi trova ancora Mantovan intento ad avviare un lungo cammino, “a scartare, a scavare soprattutto dal punto di vista tecnico e proprio in quella “freschezza tenera e un po’acerba” vede la sua dote migliore. Quindici anni dopo, agosto 2014, è Valerio Franconi che a Visso viene a trovarsi per la prima volta davanti ai colori di Mirko Mantovan, diventato nel frattempo protagonista di un racconto: bellezza contro il nulla, le piccole dinastie di tono contro il tempo battuto dai minuti, in una straordinaria mostra che è già al centro della scena, forte, insolita commovente e unica. E’ proprio questo Mantovan che ora ci viene qui proposto, con la bellezza espressiva e testimoniale delle ultime sue opere, una porta che si apre su un mondo che è diverso da quello che ci viene proposto ogni giorno. Memoria e presente s’impongono sin dai titoli, appena filtrati dalla Rete. Scorrono meraviglie. La grande e morbida sorpresa di Passeggiata a Fiastra, la tenerezza di Mattino sulla riva, la nostalgia di Ortensie sul piatto. E ancora, la fantastica scorrevolezza esistenziale di Prima neve sui monti Sibillini fino a Rosa e ortensie e Autunno in controluce, quanto di più simile a una vibrazione d’inquietudine e di congedo. E’ un incantato albeggiare spirituale, un’apertura di vita che va oltre la connessione internet, un voler ricordare sentimenti denudati portati al grado zero per misurarne il palpito primo, nel cuore e anche nella mente.
Tutto il contenuto del suo lavoro, grondante ricerca, trasporta il respiro di una pittura a tratti impegnata e a volte sognante; scopre verità rimaste nascoste in un miracolo artistico che si rinnova ad ogni composizione e accarezza i più teneri sentimenti, i dolci abbandoni di un’artista che nel suo itinerario pittorico racconta una vita intera dedicata alla pittura.
Noi viviamo tempi di retorica. E l’arte accetta la continuità col quotidiano attraverso il linguaggio della Rete, che ha il potere di persuasione di una cornice, implicante esposizione e protezione, offerta e riserbo, uso e contemplazione. Qui la memoria del vissuto si confronta e contesta la smemoratezza spettacolare dei mass-media, che ci restituiscono soltanto la celebrazione di un costante presente. L’artista oppone invece una scatola di sorprese: non solo ansia, desiderio, amore, pause, respiri, sospensioni, smarrimenti emotivi che si rinnovano negli stati d’animo come la folata di vento che fruscia tra l’erba; ma anche il trascolorare dei paesaggi così mutevoli, pieni di slanci inarrestabili, quanto di misteriose cupezze, l’ingrediente miracoloso, la spezia misteriosa, il particolare allineamento cuore – sensi – mente capace di trasformare la realtà in fiaba, come pure una parola, una visione, un luogo dello spazio e del tempo trasfigurato dai colori: uno scenario unico e fantastico. E all’interno di questo scrigno speciale l’artista ha voluto tracciare i suoi tour espositivi che hanno fatto tappa in molteplici località italiane. Si tratta di mostre organizzate come una sorta di diario sentimentale, intrecciando sorgenti di emozioni e memorie di antichi luoghi. Memorie ora dolci, ora affabulanti e consolatorie: come un palcoscenico dove il paesaggio, le nature morte, la vita di tutti i giorni vengono scomposti in elementi scenografici; ora avvolti di poesia nei tronchi degli alberi, ora nel bosco che trascolora e nella natura che viene continuamente rivista, rimodellata, rivisitata col mutare delle stagioni. Tutt’attorno soltanto le tracce di una vita allontanata, di ricordi segregati nel nostro cuore, che ogni volta ci riportano a un gioco dell’infanzia che forse abbiamo fatto in molti: inseguimenti accaniti per afferrare i contorni della nostra ombra e immobilizzarla per sempre. Mirko Mantovan ha affidato all’ombra della natura il suo sguardo sul mondo: luci dorate che lanciano lampi nell’intrigo del bosco, paesaggi dei monti Sibillini, angoli di sottobosco, orizzonti ampi, che intonano un canto a più voci ai fiori, ai prati, ai laghetti, ai caseggiati rurali. E’ il miracolo artistico che si rinnova ad ogni composizione e accarezza i più teneri sentimenti, i dolci abbandoni di un insospettato artista che in questo itinerario pittorico, in questo suo spazio virtuale racconta una vita intera e molto più mette a nudo la sua anima con sincerità infinita, dove si possono ritrovare tutti coloro che affrontano l’esistenza, vivendola appieno, per andare oltre. Difficile non soffermarsi e ammirare.
Valerio Franconi
Marzo 2018